giulia ginkgo
Performance, installazione che instilla il dubbio che il tempo non sia lineare, dove le cose accadono nella modalità di una ripetizione differente, dove le forme non sono platoniche essenze inossidabili, ma piuttosto simulacri, diffrazioni di luce, deviazioni dall’autentico. Intatte, dolorose, incantate come le storie che guardano e ci riguardano. Una meta realtà, di gesti e di abbandoni psichici, di resti di oggetti, di accenni significanti. Storie che attendono una nuova voce come il mantra di una nuova tessitura di intrecci. La narrazione del mito non rispetta una fedeltà ad una origine
ma si autoalimenta dell’eco, del suo doppio che trasforma la versione originale, il mito si genera nella ripetizione e nel tradimento di un testo originale. Il mito è il pretesto che genera ibridazioni, contaminazioni, innesti, dove l’archetipo come forma universale si riveste di travestimenti culturali provenienti da tradizioni lontane come occidentali e orientali, e si alimenta pure di un fantasy sincretismo in una sintesi eclettica che si allontana dall’originale.
Ma in fondo qualsiasi filologia applicata al mito è uno sforzo vano perché il mito è per costituzione affidato a un percorso di fraintendimenti, di ambiguità, di metamorfosi semantiche, già traditore di un testo mai davvero scritto e affidato alla forza della ripetizione. La forza del mito è mantenere aperte le domande, indicarci cosa siamo da sempre, ma anche cosa potremmo essere. La costruzione mitica, con la sua origine impura, arcana, sa sempre alludere a dove stiamo andando, conosce le vie delle nostra inguaribile erranza. L’oscurità naturale delle cose attraverso l’allegoria e l’innesto di elementi naturali rende la spirale delle storie una narrazione che si avvolge in una forma organica che avvolge il tempo mitico del
kaos prima del cosmo. Il veleno del significato richiede l’antidoto della paziente incessante attività di tessitura del senso che intreccia le storie in un tessuto di attesa che ricopre il mondo di attenzione. Muta, ammaliante, indelebile come l’effetto di un sogno non in grado di superare le soglie dell’incoscienza.
Calipso è una divinità marina, custode di un delirio di amore che induce a una segregazione lunga sette lunghi anni, durante i quali Ulisse, come la prigioniera proustiana, deve affrontare la follia di un legame forzato dell’amore rinchiuso nell’isola perduta da cui è vietato fuggire. Il paradiso infernale di un amore claustrofobico nell’isola d’esilio perduta ai confini del mondo. Una passione che ha violato la legge che vieta ad una dea di innamorarsi di un mortale. L’incantesimo di una prigione d’amore di sette anni avvinti nella nostalgia di Ulisse per il mondo e che lo spingono a rifiutare l’offerta di immortalità spinto dal nostos, dal richiamo più forte del ritorno. Come l’amore il mito è una riserva immemorabile di naufragi, di tesori sepolti nel mare della mente. Infestati dalla persistenza degli dei ammiccanti e ammalianti, nascosti ma sempre presenti. La metamorfosi del sacro richiede di riscrivere la storia del mito nel linguaggio di una commistione con i materiali poetici di un codice intimo e privato quasi intraducibile ma capace di emettere segni pulsanti delle ispirazioni del mito. L’installazione di Giulia Ferrarese è un mondo poetico tempestato di oggetti, amuleti, rituali apotropaici ancestrali, di forme che reinventano antichi riti, di rappresentazioni di narrazioni mitiche dove l’umano, il divino, l’organico e l’inorganico, la persona e l’animale si ibridano nelle nuove forme dell’anima della natura. Un clima psichico, uno spirito di metamorfosi avvolge la narrazione e cosparge le opere di un’aura di magica ambigua transizione tra le cose e i simboli. Mondi troppo attenti a nemmeno sfiorarsi si fecondano tra di loro germinando nuovi simboli fluttuanti nell’apnea della storia senza tempo. Una sorta di oscillazione psichica sovra-individuale, una foresta di simboli, un gioco infinito di rimandi a tradizioni, narrazioni, e ibridazioni mitopoietiche, ipno-calipso è una performance-installazione site-specific che attiva la circolazione di un sistema allusivo ed evocativo dove non
è solamente il campo allegorico che attorno alla figura di Calipso intesse una azione magico-teatrale ma sopratutto il pretesto per ricostruire-decostruendo nelle sue strutture profonde la forza di ricreazione del mito come fonte di conoscenza del profondo, come universo mentale ipnotico
e amniotico. Una surdeterminazione di significati come in un sogno abbraccia la narrazione archetipica dove ogni mito si intreccia con un altro, dove la passione non corrisposta, la reclusione claustrale dell’amore nel giardino dell’eden, si confronta con la foresta della caccia dove l’umano compie il rito dell’iniziazione alla conoscenza, dell’apertura al mistero dell’ impermanenza.
Vittorio Raschetti